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Forse non tutti sanno che, nel 1968, l’Italia mise a punto una regolamentazione sulla progettazione accessibile di spazi ed edifici. Nella pratica, questo significa che da circa cinquant’anni il nostro Paese si impegna a dare vita a strutture prive di barriere architettoniche: i cosiddetti “edifici accessibili”.
Nel 1968, l’Italia era la quinta nazione al mondo a muoversi in questa direzione, dopo Stati Uniti, Canada, Inghilterra e Svezia. Un primato non di poco conto, se non fosse che a mezzo secolo di distanza si abbia talvolta la sensazione che si possa fare ancora molto per concretizzare una vera e propria cultura dell’inclusione nel nostro Paese. È infatti bene ricordare che edifici inaccessibili a persone diversamente abili possono costituire elementi di discriminazione, e che tale comportamento è inammissibile già a partire dalla costituzione italiana, per arrivare poi alla relativa ratifica della Convenzione ONU sui diritti delle Persone con Disabilità.
La risposta è nella definizione stessa del termine. Le costruzioni devono incarnare – e dunque creare – specifiche identità urbane calibrate sulle effettive esigenze della popolazione, e possono farlo soltanto attraverso la progettazione di ambienti confortevoli per tutti. Le barriere architettoniche, siano esse reali o solamente percepite, ovviamente non rientrano nel concetto di architettura inclusiva ma, al contrario, possono essere considerate la loro antitesi.
Per questa ragione esiste un vero e proprio decalogo di best practices che possono (e dovrebbero!) essere adottate nella progettazione di edifici e spazi così che questi si rivelino effettivamente inclusivi in modo trasversale. Se, da un lato, alcuni concetti potrebbero sembrarvi semplici, persino banali, essi si attengono comunque ai principi della non-discriminazione, in questo caso applicata allo spazio costruito, e dovrebbero dunque essere tenuti in massima considerazione.
Ma prima di addentrarci nel decalogo, ripassiamo qualche termine importante.
Si definiscono barriere architettoniche tutti quegli ostacoli di tipo fisico, ossia tangibile, che rendono complessa la mobilità, in particolare per individui che dispongono di capacità motorie limitate. Queste possono chiaramente includere un handicap permanente o temporaneo, come ad esempio un’ingessatura.
Va però considerata barriera architettonica anche l’assenza di adeguata segnalazione di eventuale pericolo o di orientamento finalizzata a supportare persone ipovedenti, non vedenti o senza udito. Secondo il DM 236/89, che rappresenta la normativa di riferimento in quest’ambito, nella categoria vanno inclusi tutti gli impedimenti alla corretta fruizione degli ambienti, siano essi fisici o meno: dal marciapiede troppo alto al corridoio troppo stretto, dalle scale prive di rampa ai parcheggi dimensionalmente inadeguati e via discorrendo.
In considerazione della varietà e dell’ampiezza del mero concetto di “barriera architettonica”, va da sé che debba essere proprio la fase progettuale dell’opera architettonica a fare la differenza nel superamento dei limiti spaziali, perché è proprio in questo step iniziale che andranno concepiti ambienti in cui gli ostacoli per le persone, virtualmente, sono inesistenti.
Ora che abbiamo chiarito cosa sono le barriere architettoniche e in quale modo esse possono influenzare la fruizione degli spazi, torniamo al tema centrale del nostro articolo, ossia alle best practices che il progettista dovrebbe sempre seguire nella creazione di un edificio accessibile.
In conclusione, il professionista che si trovi a lavorare su un edificio, sia esso di nuova concezione o preesistente e oggetto di una ristrutturazione, dovrà sempre tenere a mente il gold standard ben riassunto nel principio di “progettare senza discriminare”.
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