Racconti storici

Sguardi trasversali: Alici, Grones e Tocca a Villa Aventino

Di Elena Forin, critica d’arte e curatrice indipendente.

Tra i comuni di Bossico e Lovere, in un altipiano felicemente affacciato al paesaggio del Lago d’Iseo, sorgono alcune dimore costruite a partire dal secondo Ottocento da famiglie alto borghesi della zona. La particolarità di questi edifici non risiede tanto (o solamente) nelle architetture, quanto nella storia e nella scelta onomastica che le connota. Ciascuna di esse infatti porta il nome di un colle romano, di un luogo legato alla città eterna o a eventi risorgimentali: chi le ha costruite ha espresso infatti apertamente il proprio ideale politico e patriottico schierandosi a favore dell’unità d’Italia, e di Roma come città capitale. Campidoglio, Aventino, Celio, Esquilino, Palatino, Quirinale e Viminale, ma anche Vaticano, Gianicolo, Pincio, Caprera, Glori e Quattro Venti raccontano uno dei tanti modi con cui i valori democratici e repubblicani sono emersi in quegli anni, e testimoniano l’impegno e la partecipazione al proprio tempo dell’imprenditoria ottocentesca, diventata poi modello per le generazioni successive, che ancor oggi in quei luoghi e in continuità con il passato, supportano lo spirito del presente.

Così è infatti nel caso specifico di Villa Aventino, una costruzione più tarda rispetto alle altre: sorge infatti nei primi anni ’10 del Novecento per volere dei Ventura Gregorini, ed è pensata in una sorta di “colloquio” con Villa Vaticano, edificata nella seconda metà dell’Ottocento da Giovanni Andrea Gregorini, il fondatore della ferriera di Lovere e appartenente alla stessa famiglia dell’Aventino. Anche i Ventura Gregorini provengono dal mondo siderurgico – e infatti il fondo libraio del Vaticano (passato ai proprietari dell’Aventino) è composto di volumi, donati alla civica biblioteca di Lovere, per lo più tecnici, che testimoniano una competenza internazionale e un acceso interesse per la mineralogia, la meccanica e la chimica industriale, oltre a raccogliere fonti dalla solida impronta europea e risorgimentale.

L’Aventino di Bossico è stato però un luogo felicemente colto anche in tema di arti liberali: dagli anni ’30 del ‘900, oltre a essere sede di apprezzamento e ascolto della musica lirica, la Villa diviene il centro cruciale anche per un nutrito gruppo di artisti: ricorda infatti il giornalista ed illustratore locale Narciso Bonfadini, che Villa Aventino, “provvista delle comodità più raffinate, è un piccolo tempio dell’arte. Tele del Tallone, del Trussardi, dell’Oprandi e di altri Maestri coprono le pareti delle sue sale per il più eletto godimento dello spirito. Ed è facile sentire là dentro buone esecuzioni musicali: come quella che, una lontana notte di maggio, gremita di stelle e di amori, io sentii fluire dalle aperte vetrate e propagarsi nel bosco a svegliarvi le fate delle più belle fiabe infantili per le danze”1.

È questo il clima in cui nascono tante opere, ispirate dalla tranquillità del luogo, dalle sue viste distese e dal nutrimento culturale offerto dai Ventura Gregorini: tra queste anche la piccola tela di Giorgio Oprandi che avvia il più recente progetto della Villa, e che coinvolge tre esponenti dell’universo della pittura contemporanea – Beatrice Alici, Gabriele Grones e Michele Tocca.

Giorgio Oprandi

Di ritorno da lunghi viaggi in Africa e Albania, Oprandi si ristabilisce a Bergamo, e dagli anni ’40 del Novecento circa, si dedica alla pittura di paesaggio trovando nella natia Lovere e nella natura del Sebino le fonti privilegiate del suo dipingere. Alcune testimonianze lo raccontano alle sue prime armi, in questi luoghi, come poeta lirico del paesaggio, ma anche come frequentatore dei prati e delle pinete: il suo rapporto con lo spazio e con il sentimento dell’altipiano è del resto ben evidente anche nel piccolo lavoro dei primi anni ’40 che parla dell’Aventino come di un luogo raccolto, avvolto nella vegetazione e nel silenzio. Il dipinto, attraverso tocchi distesi e morbidi, trasmette un’atmosfera pacata e luminosa, governata da un sereno equilibrio tra una natura dolce e armonica, e la presenza discreta dell’uomo.

Questo minuto gioiello di poesia, è stato il punto di riferimento da cui sono partiti Alici, Grones e Tocca: ciascuno di loro ha infatti trasmesso in un’opera dal formato analogo a quella del maestro novecentesco, le diverse sfumature rilevate nel contesto, restituendone non solo tre visioni, ma anche tre diverse temperature.

Villa Aventino per Beatrice Alici

Beatrice Alici (San Donà di Piave, 1992) sembra aver colto quello spirito magico che per il Bonfadini si propagava dalla Villa e svegliava le fate per condurle alle danze: il suo è un Aventino avvolto in quel buio che precede il crepuscolo, o nel sopire del giorno verso la notte.

Non vi è cupore alcuno in questo notturno, ed è anzi il senso più raccolto della natura a esplicitarsi nell’intimità del bosco colto attraverso la luce della luna. Sul senso e sulle suggestioni di questo momento l’artista è impegnata da molto tempo, fin da quando, come dice lei stessa, ambientava le sue opere nella notte senza averne piena coscienza, arrivando gradualmente a catturare la temperatura lunare componendo per lo più attraverso scale di grigi e verdi a cui accompagnare esplosioni più o meno potenti di luce: dopo aver sperimentato nuovamente il colore e le sue note anche brillanti, in questo e in altri lavori recenti la Alici torna a scegliere pochi toni cromatici di cui verifica sfumature e gradazioni.

Questa strada, che aveva percorso in maniera ancor più netta ai tempi dell’Accademia in cui affidava al disegno il compito di tradurre le proprie visioni, l’ha portata a elaborare un concetto di magico e di fantastico che si ritrova anche nell’atmosfera del dipinto dell’Aventino, in cui prende corpo un sentimento evocato da atmosfere e luci originarie e quasi primordiali.

Lo spazio non è ritratto in maniera fedele, e anzi corrisponde a una visione creata dall’artista, che ha inquadrato nella tela uno scorcio della Villa avvolta da alberi che in realtà si trovano poco oltre, ma non in diretta prossimità dell’architettura. Ad aver impressionato Alici infatti, è la vastità della natura che circonda l’Aventino e il tipo di paesaggio che intorno a questo si snoda: il processo compositivo è quindi nato da una serie di scatti che hanno inquadrato la Residenza e che sono serviti per proporzionarla rispetto al contesto, che nel dipinto abbraccia in maniera immersiva il corpo della costruzione. La visione dell’artista suggerisce inoltre l’approdo alla casa dal retro, dalla sua prospettiva privata e secondaria, lontana dall’ufficialità dell’affaccio e dell’accoglienza formale: il tenore suggestivo dei colori lascia inoltre intravedere le vetrate del bovindo affacciato sulla natura, costruito per entrare con lo sguardo nel pieno del bosco, del suo mistero e delle sue magiche creature.

Villa Aventino per Gabriele Grones

Come Alici, anche Gabriele Grones (Arabba, 1983) sceglie per l’Aventino uno sguardo dal basso che fa emergere l’architettura con una sua forma di monumentalità, ma se Alici stempera le dimensioni e la presenza diluendo il corpo e lo spazio nel morbido e onirico trattamento dei colori, Grones sceglie invece la piena luce del giorno e l’atmosfera di una nitida giornata di primavera. L’aria di questa Bossico è cristallina e pulita, ancora vagamente tagliente, ma aperta allo sguardo e alle sue tante prospettive che dall’altipiano si aprono sul lago e sul suo territorio.

Grones coglie la Villa in uno dei suoi tratti distintivi, ovvero la scritta latina dipinta all’esterno in corrispondenza del camino (“guai a sfiorare il temibile orso poggiato al bastone, l’Aventino offre pace e letizia”), con l’immagine dell’orso e la data di costruzione del 1912. Per arrivare a questo taglio, l’artista ha selezionato un insieme di scatti fotografici della Villa e dei suoi dintorni e ne ha analizzato la composizione e i dettagli affrontando il lavoro come fosse un ritratto.

“Ho cercato di individuare la forma generale e i particolari da far risaltare (come il dipinto parietale con la scritta oppure il livello in pietra a vista), in modo da creare un’immagine densa di dettagli ma equilibrata. Ho inserito dei brani del paesaggio che si distende di fronte alla villa che si rispecchiano nelle finestre che danno sul versante del lago, per suggerire il rapporto con lo spazio.”

Quello che risulta da questo approccio e da questa modalità, è quindi un linguaggio caratterizzato da una precisione notevole, ma mai didascalico nel suo riferire l’immagine: il fare di Grones presuppone infatti che allo studio iconografico e fotografico faccia seguito il passaggio di diversi strati e di differenti velature che allontanano l’immagine dal suo qui e ora, per portarla in una dimensione più personale e intima, in cui l’elaborazione di dettagli e atmosfere si compie in maniera graduale e in maniera analoga a un vero e proprio percorso di comprensione e conoscenza tra il soggetto dipinto e l’artista.

Nel caso specifico dell’Aventino, Grones sceglie quindi di raccontare la sua visione simbolica della casa, dello spirito che la famiglia ha voluto conferire al luogo, e il suo dialogo profondo e fluido con gli spazi che la circondano, e che si trovano riflessi nelle vetrate. Nel suo ritratto della casa si trovano assorbite e riflesse le ombre, le fronde e le bianche nuvole stagliate sul cielo terso, che tornano insieme al verde acceso dei prati in questa pittura virtuosissima, in cui ogni minimo elemento, dalla foglia al filo d’erba, è trattato con cura e minuziosa attenzione, ed è mosso da una brezza frizzante e lieve, che è tanto nell’ambiente quanto nell’attitudine umana di chi vive questi luoghi.

Villa Aventino per Michele Tocca

Michele Tocca (Subiaco, 1983) nella sua tela percorre invece il tragitto visivo che accompagna la salita lungo il colle su cui sorge l’Aventino. La pratica dall’artista è improntata su periodi di osservazione in cui la conoscenza dei luoghi e dello spazio si compie gradualmente attraverso il rilevamento di segni anche minimi, che però coincidono con attimi di verità e di intensità vibrante.

Le impronte nel fango, le tracce di un passaggio, le crepe nelle superfici raccontano l’inserirsi del tempo nei luoghi: l’opera, che secondo un fare oramai consolidato nella ricerca di Tocca, è dipinta dal vero, sceglie un punto di vista dal basso e utilizza elementi realmente presenti nel contesto per improntare il racconto. In primo piano infatti, un tronco verde che si trova in cima alla salita che conduce all’ingresso della villa, è usato come cavalletto su cui poggiare la tela: questa cornice, di cui si colgono nervature e movimenti e su cui la luce si poggia radente, funge in sostanza da mirino e da osservatorio per condurre lo sguardo e muoversi nello spazio. Da questo tronco si origina un attraversamento tra l’identità del contesto e quello della sua esperienza, che concretizza in una stessa prospettiva la dimensione dell’uomo e quella dell’ambiente. Questo concetto di “passaggio” è del resto presente non solo a livello concettuale e visivo, ma anche tecnico: la costruzione dell’opera e le sue dinamiche compositive traducono infatti la tensione, sempre presente nell’artista, tra una pittura intesa come espressione immediata dell’esperienza, e come impostazione strutturata a partire da momenti di studio, attraverso il colore, dei toni e dei rapporti di un dato momento di osservazione.

Illuminata da una luce diffusa e avvolta nel cielo limpido e chiaro, oltre il tronco si vede quindi la Villa. Un luogo semplice per Tocca, una apparizione solida, certa e per nulla monumentale, la cui identità traduce lo scarto tra lontananza e avvicinamento: l’Aventino in questa prospettiva non è quindi semplicemente una architettura, ma un unicuum con un paesaggio inteso come sua parte naturale e naturalmente integrante.

Del resto, ciò che ciascuno di questi artisti ha restituito della Villa, è il suo essere un coacervo di sensazioni, tensioni e attraversamenti, e in cui la natura profondamente pittorica del luogo è integrata a una identità umana certa e consapevole. Chi ha scelto questi posti infatti, generazione dopo generazione, ha abbracciato le lunghe prospettive dello spazio per guardare trasversalmente la storia e il tempo, raccontandone il passato, le attitudini immaginifiche e la dimensione quotidiana del presente: ed ecco perché, forse, dice Tocca, percorrendo quelle strade e scorgendo improvvisamente la Villa, si ha come la sensazione che l’Aventino faccia parte di un quadro già dipinto.


 

Note

1 N. Bonfadini, “L’altipiano di Bossico dominante il Sebino” in Rivista di Bergamo, 1932, p. 291.

L’autrice

Elena Forin è critica d’arte e curatrice indipendente.

Inizia la sua ricerca lavorando alla costituzione di archivi dedicati ad artisti italiani e internazionali degli anni Cinquanta e Sessanta, come Conrad Marca-Relli. A tale studio affianca analoghe indagini sulle correnti degli anni Settanta e sugli sviluppi delle ricerche più attuali. Dal 2009 al 2011 alla sua attività indipendente si aggiunge quella per il MACRO, Museo d’Arte Contemporanea Roma, per cui cura diverse mostre, tra cui Urs Lüthi – Just Another Story About Leaving, Jacob Hashimoto – Silence Still Govern Our Consciousness, Jamie Shovlin – Hiker Meat, Sarah Braman – Lay me down, Esther Stocker – Destino comune e Riccardo De Marchi – Fori Romani. Dal 2011 fa parte del collettivo curatoriale LaRete Artprojects, creato da Julia Draganovic e Claudia Löffelholz. Recente è la sua collaborazione alla collettiva di video “The Eye of the Collector – video dalla collezione di Manuel De Santaren” (Mambo – Villa delle Rose, Bologna). Cura con Julia Draganovic il secondo appuntamento di “Click or Clash? Strategie di collaborazione” dedicato a Marco Giovani, Niklas Goldbach e Yves Netzhammer.

Schiavi Spa ringrazia Elena per la gentile collaborazione e la disponibilità.